Prologo
IN CHE MONDO VIVIAMO
Roma, una mattina d’inizio maggio
Il primo a notarli è il bambino in terza fila.
Sta seduto al finestrino dello scuolabus e guarda fuori. Ma fuori qualcosa non gli quadra. Si appiccica al vetro e urla: «Guardate quelli! Uomini che si baciano. Là, sulla panchina. Guardate come stanno, quei due: tutti abbracciati, tipo fidanzati».
Gli altri hanno già le facce contro i vetri, che s’appannano dei loro fiati accelerati. Tutti insieme, i bambini. Tutti sullo stesso lato della garrula vedetta.
Il piccolo scuolabus adesso è una bolgia.
I più grandi guidano il coro. Gridano. Danno fondo al repertorio di ovvie oscenità imparate da tempo. Gli altri, i più piccoli, ridono e ripetono a pappagallo.
Uno spasso, alle otto del mattino.
La maestra ci mette un po’. Quelli là, Dio santo, sono proprio due uomini. Due tizi, due maschi. Avvinghiati l’uno all’altro. Sulla panchina oltre la siepe che costeggia la strada.
Il galoppatoio di Villa Borghese: e dove, sennò? Rinomato ritrovo di pervertiti.
Alle otto del mattino.
La nuca di uno dei due copre il volto dell’altro. Mani che cingono la schiena in un abbraccio. Inequivocabile.
Una mano sembra fasciata. Piccolo dettaglio, in quel quadro di plastica depravazione. Manco fossimo al Gay Pride.
Debosciati. Individui senza ritegno. Gente di questo mondo senza regole dove ormai vale tutto.
Probabilmente quei due suppongono che i passanti non possano vederli. Ma lo scuolabus costituisce un osservatorio rialzato. Fermo nel traffico.
È proprio a causa della coda che si è bloccato. Lì, davanti a loro.
Così la piccola vedetta della terza fila ha potuto scatenare il caos.
«Non riesce ad andare più avanti?».
Il tono della maestra è un ordine, più che una richiesta.
L’autista allarga le braccia: «Siamo in fila. E mica posso volare».
«Se ne freghi! Ci porti via. Subito. Via da questa indecenza!».
Il pulmino giallo invade la corsia dei taxi. Supera le auto. La maestra afferra il telefono. Tre squilli e spiega la scena. Fornisce le indicazioni necessarie. Tutte quelle possibili. Lo scuolabus s’allontana. Lei riesce a sbirciare ancora quei due.
«Sono sempre lì. Nella stessa posizione di prima» dice alla voce del 112. «Uno dei due ha un berretto blu…».
«Va bene, signora».
«Un berretto di lana, credo, e ha pure una mano fasciata».
Il carabiniere della centrale ha il tono piatto. Pigramente professionale. Melodicamente meridionale. «Abbiamo una pattuglia, in zona. Si sta portando sul posto. Saremo lì a momenti».
«È uno schifo! Una cosa così, nel parco pubblico, in mezzo alla gente. Davanti ai bambini: dovete arrestarli, quei due. Dovete fare qualcosa, eddiosanto!».
«Lasci che ce ne occupiamo noi».
«In che mondo viviamo». Chiude la telefonata. «In che mondo, Dio mio!».
***
«Vai tu. La devono piantare. Diglielo chiaro. Poi ce ne andiamo a fare colazione».
«Io l’ho già fatta, la colazione. A casa, prima di uscire».
«Anch’io. Ma al bar è un’altra cosa. Conosco un posto, qui vicino. Fanno il cappuccino con la schiuma, quella artistica. Il migliore di Roma. Muoviti, va’!».
Il carabiniere anziano fa un gesto al carabiniere più giovane. Indica quei due stronzi. Abbracciati sulla panchina. Che se ne fottono della macchina con i lampeggianti azzurri. Se ne fottono delle divise. Se ne fottono del mondo che frettolosamente li osserva e passa.
Infastidito, perlopiù.
«Ma come minchia fanno, così, di mattina…» riflette il carabiniere giovane.
«Perché, alla sera invece è diverso?». Il carabiniere anziano scuote la testa: «Froci. L’ora è sempre giusta, per quelli. Dai, vaglielo a dire. Che la smettano, altrimenti ce li carichiamo fino in caserma».
«Atti osceni in luogo pubblico. Offesa al pubblico pudore…».
«Appunto. Sbrigati, che intanto io parlo con la centrale. Poi andiamo al bar».
Il carabiniere giovane annuisce. Si avvicina alla panchina. Gran bella operazione per cominciare la giornata.
Minacciare d’arresto due gay abbarbicati l’uno all’altro. E non due ragazzotti qualsiasi. Signori fatti, a giudicare dai vestiti. Strafatti, probabilmente. Fattoni elegantoni. Come quelli che di sera circolano tra Prati e Ponte Milvio. Di sera, però. Questi, invece… Completo scuro e scarpe buone. L’orologio d’oro. Il berretto azzurro.
Una mano fasciata. Dettagli.
Due che devono aver perso la testa.
La testa.
«Minchia, la testa» mormora il carabiniere.
Perché dalla testa di quello che sta di spalle scende una traccia rossa che scompare sotto la giacca. Un tatuaggio, forse. Ma non può essere. Che tatuaggio…
Un nastro. Un rivolo, forse. Dalla nuca. È proprio da lì che scende.
Il carabiniere abbassa gli occhi ed eccolo di nuovo, il rivolo. Riappare, segna il suo tracciato giù per una caviglia e finisce a terra, tra l’erba.
L’erba è una macchia scura. Una pozza secca.
Il giovane carabiniere si volta verso il collega anziano. Se solo trovasse il fiato per gridargli, lo farebbe. Ma intanto quello se ne sta lì, appoggiato alla macchina. Alla radio con la centrale.
«Tutto sotto controllo» sta dicendo. «Li facciamo ricomporre e li diffidiamo, ma se non fanno resistenza eviterei di…».
Fa un gestaccio al giovane collega. Significa: e datti una mossa, che cazzo!
Lui torna a girarsi e fa ancora un passo. A pochi metri da quei due.
Si sposta sulla destra. Lentamente. Fino a quando non scorge il volto dell’altro. O quel che ne rimane. Sotto il berretto azzurro di pile.
Cade in ginocchio e vomita. La sua prima colazione.
Luigi Carletti
dal libro REDUS – Romanzo Erotico di una Spia